Non tutto ciò che può essere misurato conta,e non tutto ciò che conta può essere misurato

Riprendo brevemente la tematica già introdotta in un precedente post (La grande illusione dell’alta fedeltà), analizzandola questa volta dalla prospettiva delle misure al banco di prova. L’obiettivo del post è di capire quale impatto abbiano i dati di targa e i test strumentali effettuati su un apparato audio quando ne valutiamo il livello di “buona riproduzione”. La qualità di riproduzione è cioè una caratteristica che possiamo identificare sulla base delle sole misurazioni oggettive? Ogni audiofilo di lunga esperienza “sa” che così non è, ma non è sempre chiaro il motivo. Blesser e Salter provano a fornire, in una recente pubblicazione edita dalla prestigiosa MIT Press [Blesser and Salter, 2007], un modello interpretativo che spiega perché le misure effettuate nel contesto della riproduzione sonora siano effettivamente di dubbio valore.

Dal punto di vista pratico, si tratta di un aspetto con il quale facciamo i conti tutte le volte in cui ci apprestiamo a fare un acquisto in materia. Prendiamo due amplificatori con dati di targa molto diversi, ad esempio con potenze di uscita rispettivamente di 60 Watt RMS e 100 Watt RMS. Quante volte ci è passato per la mente, anche solo istintivamente, che sia preferibile acquistare il più potente perché “sicuramente” avrebbe avuto performance migliori? O, del tutto analogamente, ci è venuto il dubbio che scegliendo il primo potremmo “perdere qualcosa”. Oppure ancora, come secondo esempio, quante volte abbiamo ricercato il dato relativo al livello di distorsione di una sorgente per capire se sia degna del nostro impianto domestico? La conclusione a cui Blesser e Salter giungono è che tutte queste valutazioni sono spesso effimere. Basti pensare che il “migliore” dei giradischi presenta una distorsione armonica un ordine di grandezza superiore a quella di un qualsiasi lettore CD economico disponibile oggi in commercio. Non per questo però bandiamo i giradischi dai nostri impianti, ritenendo che, per effetto di queste misure, un vinile suonato nel nostro impianto domestico ci permetterà di vivere un’esperienza di ascolto meno appagante dello stesso messaggio sonoro riprodotto da una sorgente digitale. Anzi, per alcuni audiofili è esattamente il contrario! Che cosa sta, allora, succedendo quando ascoltiamo per farci dire che un certo apparato suona meglio di un altro?

Per capire perché i valori di targa (e ogni altra misurazione) nell’hi-fi hanno un valore relativo, gli autori sopra citati identificano tre livelli gerarchici di elaborazione attraverso i quali il nostro cervello riconosce il suono, e di questi tre, solo il primo livello è “catturato” oggettivamente dalle misure. Gli altri due rientrano nell’ambito delle valutazioni soggettive. I tre livelli, dal più primitivo al più raffinato, sono i seguenti:

  1. Livello della sensazione sonora, in cui il nostro apparato uditivo riesce a “riconoscere” la presenza di un suono quando questo supera una determinata soglia ed entra nell’area dell’udibile (tipicamente, in un intervallo compreso tra i 16-20 Hz e i 20 kHz). Questo livello è correlato alla misurazione fisica del suono, ed è quello che spesso ritroviamo nei dati di targa degli apparati audio, unitamente alla sensibilità, alla distorsione, e ad altri parametri registrati nei test di misura al banco di prova. Tutti questi elementi, tuttavia, caratterizzano in minima parte la nostra esperienza d’ascolto in quanto il cervello attua due successivi passaggi di elaborazione del segnale.
  2. Il primo di questi due passaggi è dato dal livello della percezione sonora, in cui il suono acquisito in prima istanza dall’apparato uditivo viene rielaborato incorporando processi cognitivi complessi, largamente influenzati dalle nostre pregresse esperienze culturali e personali. In questo secondo livello siamo in grado di riconoscere esattamente quello che stiamo ascoltando, in quanto abbiamo imparato ad esempio a far corrispondere a un preciso timbro sonoro uno specifico strumento. Abbiamo cioè imparato a selezionare, filtrare e classificare i suoni che sentiamo, ritenendoli associati alla (rilevanti nel contesto della) riproduzione musicale oppure del tutto scollegati (rumore, suoni ordinari attorno a noi come il passaggio di un veicolo nella strada vicina, il cane che abbaia, e così via). Attraverso questo processo di filtraggio, decodifica e classificazione, inizia nel nostro cervello un “subdolo” (perché spesso inconscio) processo di adattamento sensoriale per cui tutta l’informazione acquisita nel primo livello viene rielaborata e adattata in base alle esigenze contingenti dell’individuo. In questo preciso momento le caratteristiche espresse dalle misurazioni possono essere “neutralizzate” e perdere la loro rilevanza. Facciamo un esempio per chiarire il concetto. Quando muovevo i miei primi passi nel campo dell’alta fedeltà, avevo la convinzione che un “buon” impianto si riconoscesse dalla “quantità” di bassi che riusciva a riprodurre :-). Dopo un lungo periodo di allenamento, fatto di ascolti di impianti, tracce musicali e ambienti diversi, nonché di un paio di “acquisti sbagliati” (estremamente didattici, in verità),  imparai a riconoscere nel basso riprodotto da un impianto le caratteristiche distorsioni, le code, i riverberi ambientali. La mia definizione di impianto “ben suonante” cambiò leggermente: l’impianto migliore divenne quello che riproduceva il basso più “profondo” senza distorsioni, ossia con qualità abbinata alla quantità. Imparai così che leggere i dati di targa per determinare quale amplificatore o quale diffusore raggiungesse il livello minimo di frequenze basse riprodotte diventava un aspetto non sempre collegato all’appagamento dell’ascolto. Passarono ulteriori anni e iniziai a variare i generi musicali ascoltati, allargando in tal modo lo spettro di esperienze di riproduzione musicale vissute. Imparai col tempo ad apprezzare la ricchezza della gamma media in cui strumenti come il sassofono e le voci trovano la loro collocazione principale. Raffinai progressivamente i miei gusti musicali (aspetto culturale) e con essi cambiò ancora la mia definizione di impianto “ben suonante”, a tal punto che l’intervallo di frequenze riproducibili diventò addirittura quasi irrilevante. La mia capacità di valutazione si arricchì di altre caratteristiche come la focalizzazione, la coerenza timbrica, l’immagine stereofonica che costituiscono alcuni dei valori di un audiofilo. In conclusione, la consapevolezza del livello di percezione sonora ci sposta dall’ambito delle mere misurazioni fisiche a quello del riconoscimento selettivo in cui associamo un suono a un’immagine (il violino, il pianoforte, la voce umana maschile o femminile, collocati in una scena con una determinata profondità e ampiezza, e così via).
  3. Il terzo e ultimo livello proposto dal modello di Blesser e Salter è quello della semantica del suono, in cui dopo aver acquisito il segnale sonoro e averlo decodificato e classificato in base alla propria natura, gli attribuiamo un significato. Anche questo livello è legato alla cultura e alla esperienza soggettiva (alcuni di noi hanno perfezionato le loro conoscenze e sono in grado di riconoscere una fuga rispetto a un adagio, ad esempio). Ma non si tratta solo un aspetto di pura tecnica: è proprio in base al contenuto del messaggio sonoro abbinato allo scopo per cui siamo in ascolto che, secondo Blesser e il suo collega, siamo poi indotti a prestare più o meno attenzione. Se stiamo effettuando un ascolto critico al fine di valutare un impianto, oppure se vogliamo solo rilassarci e godere della musica che ci piace di più, oppure ancora se cerchiamo una musica d’ambiente adeguata per a una sessione di meditazione, il nostro processo interno di selezione e filtraggio di adatta in modo specifico. Selezioniamo, filtriamo, per poi decretare il messaggio sonoro ascoltato come “interessante” o “non appropriato”, come “piacevole” o “disgustoso”, come “utile” o “inutile”. In questo terzo livello, infine, avviene anche l’importantissima associazione suono-emozione. Un suono ha il potere di evocare memorie di situazioni, sensazioni, persone, vissuti, emozioni e suggestioni. La domanda sorge qui spontanea: come può, allora, un’emozione (del tutto soggettiva) essere decifrata completamente a partire da una pur complessa misurazione strumentale (che per definizione è oggettiva, quindi uguale per tutti)?

La differenziazione di questi tre livelli costituisce un modello concettuale interpretativo importante per capire come noi esseri umani processiamo la musica (e qualsiasi altro suono udito). Il suono viene indistintamente elaborato da tali livelli. Il problema è che tale elaborazione non avviene con una separazione discreta di ciascun livello, per cui non riusciamo a capire dove finisce esattamente un tipo di analisi e ne inizia un’altro. Tutto avviene all’interno dei processi cognitivi del nostro cervello come una sorta di fusione delle infomazioni in tempo reale. Ci rendiamo a malapena conto di ciò che arriva in ingresso, pressioni sonore, e ciò che viene fornito in uscita, emozioni. La cosiddetta funzione di trasferimento che “calcola” come tradurre le prime nelle seconde è del tutto sconosciuta. Possiamo per ora adottare solo modelli semplicistici come quello appena descritto. La citazione di Albert Einstein con cui ho intitolato questo post mi sembrava molto appropriata. Blesser e Salter la riassumono egregiamente in questo passaggio del loro lavoro:

Detectable [measurable] attributes [of sound] may not contribute to perceptible attributes, and perceptible attributes may not be emotionally or artistically meaningful. […] What we, as individuals, consider to be meaningful and desirable is largely learned, although some of us show a more or less native ability to hear certain spatial and other attributes of sound. At this level of cognition, measurements are of dubious value.

Quest’ultimo passaggio racchiude probabilmente il mio principiale approccio all’audiofilia: riconoscere che si tratta di un processo di apprendimento continuo di ciò che è realmente “significativo” nel concetto di alta fedelta. Una definizione in perenne evoluzione per effetto dell’adattamento culturale ed esperenziale che io, come ciascuno di noi, sperimenta nella propria quotidianità, attraverso lo studio, il confronto con altri e la percezione derivante degli ascolti.

Bibliografia

[Blesser and Salter, 2007] Blesser, B., Salter, L.-R. Spaces Speak, Are You Listening? Mit Press. 2007

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