Il senso del buono: riflessioni sul concetto di “alta qualità” nell’Hi-Fi

Hi-Fi, ossia Alta Fedeltà, per molti significa la capacità di un impianto di riprodurre un messaggio musicale con la migliore qualità possibile. La traduzione letterale dall’inglese ci fa subito comprendere, però, come l’Hi-Fi identifichi una riproduzione fedele all’originale (in tal senso diremmo “corretta”) anziché declinare un livello minimo di qualità al di sotto del quale l’impianto non è “buono”. Ciò significa che se pilotiamo un impianto ad alta fedeltà con del rumore, questi riprodurrà (sorpresa?) rumore, magari con un margine di errore trascurabile rispetto al segnale d’ingresso (caratteristica di correttezza), ma sempre rumore sarà. In altri termini, un impianto “fedele” in senso stretto non dovrebbe snaturare il suono originario solo per ottemperare a una qualche metrica di qualità, qualunque essa sia. Non basta tuttavia dire che una riproduzione avente una distorsione armonica totale (THD) inferiore, diciamo allo 0.01% sia sufficiente per determinare la “bontà” dell’impianto. Ferma restando l’idea di fedeltà (correttezza?) appena espressa, un primo concetto di fondo che va chiarito è la definizione di quale sia il segnale originale preso come riferimento, ossia a che cosa essere fedeli. Misuriamo la fedeltà della riproduzione rispetto all’evento live (si veda il precedente articolo sull’illusione dell’alta fedeltà) oppure rispetto al contenuto del master registrato ed ascoltato in studio? E in questo ultimo caso, che strumenti ha l’ascoltatore finale per fare la comparazione, visto che non ha accesso ai master di registrazione?

 

Ascolto live o ascolto in studio?

Molte apparecchiature, in voga a dire il vero un po’ di anni fa, puntavano l’attenzione sull’elaborazione del segnale per introdurre effetti live così da simulare l’ambiente d’ascolto in configurazioni specifiche (theater, opera, grand orchestra, cathedral, etc.). Qualche anno dopo abbiamo assistito all’esplosione del filone multicanale 5/6/7+1 (con le più recenti evoluzioni 15/16+1) e di nuovo l’accento veniva posto evidentemente sulla prima definizione di fedeltà come correttezza della “copia” del segnale riprodotto rispetto all’esperienza di ascolto delle performance live. Ma non tutto il mondo audiofilo è concorde, tant’è che alcuni costruttori, invece, mirano a replicare negli ambienti domestici l’esperienza di ascolto che avviene in studio: è il caso dei costruttori di diffusori monitor, come PMC. Non a caso, in una pubblicità della serie PMC Fact 12, il fondatore e capo progettista di PMC, Peter Thomas dichiara:

Our goal is, as always, to deliver that performance in the home as it was originally captured in the studio

Queste due diverse interpretazioni di fedeltà ci fanno capire che non esiste un unico punto di vista, non esiste un primato assoluto, ma soprattutto non esiste una scienza certa e universalmente accettata. Anzi, l’aspetto scientifico che si può evincere, ad esempio, dalle misurazioni al banco e dai dati di targa, come abbiamo avuto modo di ribadire, è effimero. Nel caso specifico, se partiamo con l’obiettivo di replicare l’esperienza live, inseguiremo una mera illusione suggestiva poiché l’ambiente domestico non è l’ambiente live e l’impatto ambientale è fondamentale. Se invece accettiamo l’idea della corretteza rispetto al master di registrazione, l’ascoltatore si trova purtroppo solo alla fine di una lunga catena di elaborazione del segnale che parte dall’acquisizione, mixing e masterizzazione per arrivare alla riproduzione nel ambiente domestico. E, arrivati qui, l’ascoltatore non ha più alcuna possibilità di verificare la conformità di ciò che sta ascoltando rispetto alla qualiltà originale. In altre parole, egli deve fare un atto di fede, valutando come qualitativamente alta una riproduzione che non presenta evidenti difetti, piuttosto che una riproduzione che è perfetta copia dell’originale. (Per essere chiari, l’assenza di difetti in questo caso si valuta nel momento in cui, durante la riproduzione, non vengono rilevate fastidiose code, riflessioni indesiderate, riverberi, e quando ancora la riproduzione della scena sembra sufficientemente ampia e profonda da rendere l’esperienza d’ascolto gratificante. Questo è tutto ciò che possiamo fare attraverso l’atto di fede). In conclusione, quindi, una prima valutazione del “senso del buono” riflette un gusto personale: l’approccio analitico dell’ascolto in studio rispetto all’ascolto che evoca l’esperienza live. Due modalità di fruizione della musica sicuramente diverse che possono addirittura suggerire, nei casi più estremi, differenti tipologie  di impianto. Ad esempio una coppia di diffusori da stand o mini-monitor nel primo caso, abbinati a una catena di riproduzione il più neutrale possibile, oppure dei diffusori da pavimento accompagnati da una catena forse più “colorata”, in base ai gusti personali, nel secondo caso.

 

Analogico o digitale?

Veniamo ora a un’ulteriore diatriba che, parlando di qualità di riproduzione, appassiona gli audiofili sin dalla notte dei tempi (moderni). È meglio l’analogico o il digitale? Quale formato è quello che preserva la migliore qualità? Purtroppo ancora una volta la risposta non è semplice poiché la domanda è mal posta. Cosa significa “di migliore qualità”? Sulla base di quale concetto viene definito il senso del “buono”? E soprattutto, stiamo valutando la qualità del messaggio musicale registrato (memorizzato su uno specifico supporto, come il vinile, il CD, il file), oppure quello della sua riproduzione in ambiente (il segnale che arriva alle nostre orecchie)? La domanda non è accademica, in quanto il segnale inciso sul master di registrazione subisce lungo tutta la catena di (ri)produzione continue modifiche, a partire da ciò che è inciso nel supporto per finire su quello che le nostre orecchie sentono (sottile passaggio quest’ultimo: quanto di ciò che effettivamente i diffusori emettono viene acquisito dalle nostre orecchie? Che ruolo gioca l’ambiente? E ancora quanto ciò che sentiamo noi è esattamente la copia identica del messaggio musicale sentito da un nostro amico che condivide con noi lo stesso ascolto?)

Partiamo dalla fine. Per quanto già discusso commentando un lavoro di Blesser e Salter, l’esperienza d’ascolto può essere “catturata” mediante tre livelli di elaborazione del suono, di cui gli ultimi due sono di natura soggettiva, essendo influenzati da aspetti esperenziali e culturali. Ne consegue che due ascoltatori diversi interpreteranno lo stesso messaggio musicale riprodotto dallo stesso impianto e nello stesso ambiente… in modo diverso. Qui non c’è quindi un vincitore assoluto (ferma restando l’ipotesi di assenza di palesi artefatti di riproduzione quali echi, riflessioni, etc. che ne minerebbero la qualità percepita).

Passiamo alla qualità della copia. In lilnea di principio non v’è proprio discussione. La copia digitale è di gran lunga più “corretta” di quella analogica poiché il processo di copia digitale preserva per costruzione l’informazione (la copia in digitale è esatta, in analogico no). Il vero nocciolo della questione è sempre capire la qualità dell’originale. Esitono infatti alcuni master, specialmente quelli più vecchi, che risultano di bassa qualità secondo gli standard attuali e che vengono intenzionalmente modificati per massimizzare la resa con srogenti analogiche (ad es. in vinile). Ne consegue che tali master suoneranno certamente meglio in un impianto analogico anziché in un pur raffinato impianto digitale. La qualità della copia, quindi, è relativa: essa dipende essenzialmente dalla qualità dell’originale e, a volte, dalla natura dell’impianto a cui sono dedicate. Un originale di qualità modesta viene consciamente modificato affinché suoni meglio. In tal caso, si comprende bene come preservare la qualità originale non è sempre la migliore politica per ottenere la migliore qualità percepita di ascolto. Il discorso di fa complesso…

E arriviamo alla qualità della riproduzione, a parità di altri fattori (ambiente, diffusori, messaggio sonoro). Ancora una volta, ci sono due preponderanti interpretazioni, una oggettiva e l’altra soggettiva. Nessuna delle due è a priori sbagliata. Sono semplicemente due modi di definire il concetto di “buono”.

La prima interpretazione ha un fondamento numerico. Per misurare una qualsiasi caratteristica fisica bisogna decidere quali metriche utilizzare. Un segnale audio è una rappresentazione analogica di un suono, normalmente rappresentato da una tensione elettrica. I segnali audio che noi percepiamo quando ascoltiamo una riproduzione musicale nel nostro impianto domestico originano da un trasduttore come gli altoparlanti dei diffusori o delle cuffie. Tali trasduttori sono in grado di convertire un segnale elettrico audio in segnale sonoro. I segnali audio sono caratterizzati dalla banda di frequenze. Più un’apparecchiatura è in grado di riprodurre uno spettro di frequenze ampio con risposta lineare (ossia senza distorsioni o colorazioni), più la riproduzione sarà fedele (a parità di altri fattori, come abbiamo visto). Tenendo anche conto che l’orecchio umano è in grado di percepire un range di frequenze nell’intervallo 16/20 Hz – 20 kHz, lalinearità della risposta in frequenza è importante soprattutto in questo range.

La seconda interpretazione ricade nella psicoacustica e negli aspetti culturali. Facciamo un esempio concreto. Chi ha alle spalle almeno un lustro è probabile che sia nato come audiofilo nell’era dell’analogico. Alta fedeltà per molti è quindi sinonimo di amplificazioni valvolari e sorgenti in vinile. Questa combinazione ha un sound caratteristico che viene preso come riferimento per il concetto di “buono”. Il passaggio al digitale per questi ascoltatori ha spesso comportato da una parte l’indiscutibile aumento di definizione e soprattutto di dinamica nella riproduzione musicale, ma dall’altra ha anche segnato una volte per tutte l’allontanamento dai parametri che fino a quel momento significavano “qualità”. Parametri, ripetiamo, di tipo esperenziale, empirico, soggettivo: l’identificazione del buono con un determinato “sound”. Se a tale considerazione uniamo la presenza, in molte esperienze d’ascolto di impianti digitali, delle distorsioni armoniche di intermodulazione (TIM) di cui le apparecchiature digitali più economiche soffrono, il passaggio dall’analogico al digitale viene percepito come negativo. Ovviamente succede esattamente l’opposto per quanto concerne gli ascoltatori più giovani, nativi digitali e abituati a riconoscere nella presenza di dinamiche pazzesche il concetto di “buono”.

 

La conclusione?

La conclusione è che per definire il concetto di “buono” dobbiamo entrare nella sfera emozionale e culturale del singolo. Le metriche e le misure al banco forniscono solo un’apparente impressione di qualità. La collocazione dell’impianto nell’ambiente il più delle volte condiziona così marcatamente l’esperienza d’ascolto finale che tutte le considerazioni su numeri, su analogico contro digitale e sulla qualità del segnale di ingresso diventano quasi secondarie. Ma sorpattutto, ancora una volta, è la postura d’ascolto che determina le condizioni corrette per percepire o meno la qualità, qualunque cosa per ognuno di noi questa parola significhi.

Prendiamoci allora il nostro tempo, per rallentare, per godere della musica che più amiamo e per concederci delle sessioni di ascolto critico, perché è questo il vero senso del buono: l’amplificazione dentro noi stessi della passione per l’ascolto. E forse oggi più che mai, in tempi così difficili per le note vicende sanitarie che ci stanno travolgendo a causa della diffusione di Covid-19, ritrovare un po’ più di tempo per noi e per le cose che amiamo, è il senso stesso della bellezza.

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